I Moti del ’68

A distanza di cinquanta anni mi aspettavo una sorta di commemorazione di quella che è stata una significativa rivoluzione culturale (almeno così è stata considerata all’unanimità) e invece nessuna celebrazione del cinquantenario.
L’apoteosi del ’68 si manifestò l’anno successivo con il più celebre e imponente dei concerti musicali di tutti i tempi a Woodstock dal 15 al 18 ago 1969 e mi auguro che almeno per questo evento si celebri il meritato cinquantenario, evitando così che tutto cada nell’oblio.

Ma perché tanta indifferenza o almeno trascuratezza verso un momento così importante tanto da segnare e cambiare la storia non solo del nostro paese ma anche di quasi tutto il mondo occidentale? Perché sembra che ci sia quasi un tentativo di rimozione psicologica di quel vissuto che in un modo o nell’altro ognuno di noi ha sperimentato più o meno direttamente?
Per tentare qualche risposta si deve necessariamente tornare alle origini e andare a riscoprire come tutto ha avuto inizio.

È noto a tutti che i primi segnali di questa rivoluzione, che definirei intellettuale anche se ebbe origine da forti contrasti sociali, si manifestarono in America negli stati del sud e successivamente in California, e vedremo in che modo.
Era il 1962 e J. F. Kennedy aveva fra le mani la patata più bollente di tutta la sua carriera presidenziale: la “Guerra Fredda” con la Russia e la questione di Cuba. Ma nel frattempo non meno critica era la situazione su un altro fronte, assai più lontano: il Vietnam. I vari intrighi dei servizi segreti e i tentativi diplomatici falliscono e sfociano con l’invio di 15.500 militari americani come primo contingente per una guerra che passerà alla storia tra le più lunghe, cruente, sanguinose e inutili.
Migliaia e migliaia di giovani americani tra i diciotto e i ventidue anni lasceranno per sempre la loro terra per mai più farvi ritorno. L’indignazione, la rabbia e lo sgomento dei genitori, dei parenti, degli amici e della società tutta verso questo massacro, lievita nelle proteste più accanite che l’America abbia mai conosciuto.
È un’America che ancora vive male la discriminazione razziale che ha radici lontane, ma che comincia a mostrare una sempre crescente insofferenza e che vede in Martin Luther King il suo maggiore esponente insieme a Malcom X, a Rosa Parks e molti altri attivisti.
A questi si affiancano personaggi dello scenario musicale che vede in prima linea Joan Baez, Bob Dylan, Harry Belafonte, Pete Seeger, Mahalia Jackson, Nina Simone e altri.
Sul fronte letterario invece si snoda un intensa attività intellettuale che ha tra i suoi maggiori rappresentanti J.D.Salinger, Jack Kerouac, Saul Bellow, Charles Bukowsky, Lawrence Ferlinghetti, Philippe Lamantia, Allen Ginsberg, Aldous Huxley a cui aggiungerei John Steinbeck che pur non interpretando appieno la così detta “Beat Generation” o il fenomeno degli “Hippies”, ebbe comunque un significativo impatto sul movimento intellettuale di quegli anni.
Insomma gli anni sessanta vedono soprattutto sulla costa ovest degli Stati Uniti, un fermento di insofferenza e di protesta sociale e intellettuale di cui inevitabilmente si fanno paladini instancabili gli artisti, in particolare quelli del mondo musicale. Come abbiamo detto, Bob Dylan e Joan Baez fra gli interpreti della protesta sociale.
Ma affianco alla protesta c’è tutto il processo di mutazione e di presa di coscienza del cambiamento intellettuale che consente di aprire a nuovi scenari e a nuove interpretazioni dell’assetto sociale che fino agli anni cinquanta si era cristallizzato su regole ormai divenute obsolete. Ora si poteva sovvertire quest’ordine, ci si poteva spostare con più facilità muovendosi da uno Stato all’altro, si poteva azzardare all’uso si stupefacenti, si poteva sperimentare il sesso libero e inventarsi le cose più impensabili anche se semplicemente assurde. Ecco che lo scenario musicale lascia i vecchi schemi della musica post bellica dei vari Glenn Miller, di Gershwin, di Duke Ellington e finanche di Frank Sinatra, Dean Martin e via dicendo, per dare vita a quella che verrà definita musica Psichedelica.

E Woodstock raccoglie tutto questo in soli tre giorni, il cui motto è Musica, Pace e Amore.
Ecco la rivoluzione.
Basta con la vecchia musica, basta con la guerra, basta con l’odio razziale.

Una simile rivoluzione socio-culturale riecheggia e irrompe in Europa, dove però non si trovano tutti quei presupposti che esistevano in America e che ne avevano generato l’esplosione.
In Europa non c’era la “Guerra Fredda”, anzi il dopoguerra aveva consentito un certo benessere definito addirittura “Boom Economico”, non c’erano giovani proscritti a combattere in Vietnam, non c’erano leggi e discriminazioni razziali.
E allora per che cosa si doveva protestare e come?

Una retrospettiva analitica pone subito in evidenza che a differenza dell’America, dove le proteste erano sì cruente ma non violente, in Europa la protesta diventa violenta, si cerca lo scontro, si cerca la distruzione materiale anziché intellettuale. In aggiunta l’intellighenzia non offre quel vigoroso e consistente scenario di autori e artisti rivoluzionari che poteva vantare la California.
La “Beat Generation” aveva trovato terreno fertile in Inghilterra e la rivoluzione inglese si manifestò in maniera assai più pacifica limitandosi a impostare nuovi costumi nella moda di Carnaby Street e al massimo a guerriglie sporadiche tra i Mods e i Rockers animando il clima di protesta degli anni sessanta. Molto più significativa invece la svolta musicale che diede vita a quel Rock così innovativo da essere ancor oggi riferimento per ogni genere musicale.
In Francia i moti studenteschi si accendono per via di una riforma scolastica (riforma Fouchet) che prevedeva di far accedere all’istruzione universitaria solo ai più meritevoli e la preclusione ai meno abbienti creando di fatto una inaccettabile discriminazione. Di qui il famoso “maggio francese” (ispirato tra l’altro dalle idee di Marcuse e di Fromm) esploso con gli scontri alla Sorbona.
In Italia invece, fatti salvi pochissimi nomi di intellettuali rivoluzionari primo fra tutti Pasolini, la cultura rimane fortemente di stampo tradizionalista, che nulla ha di propositivo per un possibile cambiamento socioculturale. Gli spunti e le motivazioni a supporto dei moti italiani sono una sorta di fotocopia di quelli americani e francesi e si identificano con simbolismi come l’esaltazione di Che Guevara, delle ideologie Di Bakunin e Trotskij (presi a prestito per l’assenza di intellettuali nostrani) e l’avversione ai rigorismi del Concilio Vaticano II, da sbandierare a giustificazione dei moti stessi. Altrettanto dicasi per lo scenario musicale che vede da un lato cantanti tradizionalisti del folclore italico (Mina, Peppino di Capri, Ornella Muti, Orietta Berti…) dall’altro tutta una propaggine di nuovi cantanti (Caterina Caselli, Equipe 84, I Giganti, i Dik Dik…) che si rifanno alla musica anglosassone che nel frattempo si era fortemente evoluta, addirittura copiandone i successi trasformati in versione nostrana. Ma nulla di paragonabile a Dylan o Baez.

Ora voler affiancare i moti nostrani del ’68 alla rivoluzione culturale americana pone una serie di quesiti inquietanti.
Sono le sue manifestazioni legate da uguali principi?
Partendo da presupposti diversi come si è arrivati alle proteste nostrane e con quali motivazioni?
E perché le proteste in Italia hanno assunto una sovversione politica violenta?

Siamo ormai negli anni settanta e le rivolte studentesche della fine degli anni sessanta si trasformano in una lotta armata che presto assume una connotazione di guerriglia, tanto che quegli anni vengono da subito definiti “Gli Anni di Piombo”.
È sostanzialmente una lotta politica e lo dimostrano la formazione di correnti pseudo rivoluzionarie come “Le Brigate Rosse”, in contrapposizione alle “Brigate Nere”, “Potere Operaio”, “Fronte della Gioventù” e altre ancora.
Cosa abbiano a vedere con una trasformazione culturale o sociale non è dato sapere e il sospetto che non ce ne sia alcuna è molto forte.
Altrettanto forte è il sospetto che in questo nuovo scenario la politica e qualche altro potere occulto abbia giocato un ruolo determinante nel manipolare il malcontento giovanile fino a strumentalizzarlo per ben altri scopi e finalizzato a sovvertire un sistema politico fortemente inquinato da forze esterne che cercarono di usurparne il potere.

Non si può non considerare che il dopoguerra è un periodo di ricostruzione del paese ed è grazie a questo che ne consegue il boom economico già citato. Ma quando comincia a girare molto denaro e ci sono forti interessi economici la torta diventa appetitosa. Chi ne ha più interesse sono le organizzazioni mafiose che cercano di accaparrarsi le commesse più importanti contando sull’appoggio politico, sia la politica stessa che attraverso un perverso meccanismo aggiudica le commesse in cambio di voti. Tutto questo non può certamente avvenire alla luce del sole e il velo che nasconde tutto è proprio la pseudo rivoluzione studentesca che viene opportunamente guidata e sfruttata per ottenere quel malcontento più facilmente gestibile politicamente. Le cosiddette “conquiste sociali” come il divorzio, l’aborto, la parità dei sessi e il femminismo non sono altro che il contentino dato al popolo per imbonirlo. A ben vedere queste battaglie non nascono da una esigenza del popolo ma vengono sostenute da partiti che hanno bisogno di affermazione sullo scenario politico e ogni volta che si raggiunge l’obiettivo della conquista quel partito ottiene voti. Si può quindi concludere che, così come la stessa Maraini arrivò a dichiarare dopo decenni che il Movimento Femminista fu un flop clamoroso, così i moti del ’68 in Italia furono una macchinazione politica che doveva instaurare un nuovo sistema politico da sfruttare economicamente, facendo leva sull’emotività giovanile degli studenti come strumento da manovrare. Tra i politici stessi emersero personaggi che prefiguravano in tutto questo un funesto e catastrofico stravolgimento sociale. Fra questi Berlinguer che incitava alla moderazione pur sostenendo la classe operaia che il nuovo sistema intendeva sfruttare in maniera spudorata, e poi Aldo Moro che pagò con la vita il suo forte richiamo sulla “Questione Morale”, vedendo nel nuovo assetto politico un’irriverente degrado dei valori etici che avrebbero dovuto essere invece salvaguardati.

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